Salvatore Cuschera | La scultura modella lo spazio

Studio Museo Francesco Messina, Milano

10 | 30 luglio 2015

 
 “La scultura modella lo spazio”: 20 sculture in ferro, 15 ceramiche e 1 arazzo, datati 1995-2015 realizzati da Salvatore Cuschera sono in mostra al Civico Museo – Studio Francesco Messina, fino al prossimo 30 giugno. Le opere sono collocate all’interno e all’esterno della chiesa sconsacrata di San Sisto al Carrobbio, in via San Sisto 4, angolo corso Torino, dove Messina ebbe studio per diversi anni e dove oggi sono conservati anche i suoi disegni che datano dal 1935 al 1981. Con questo spazio antichissimo, degli inizi del secolo XVII, e decisamente identitario, si confronta Cuschera, portandovi, per le cure di Giuseppe Appella, 20 sculture in ferro, 15 ceramiche e un grande arazzo che coprono gli ultimi venti anni del suo lavoro.
 
“Questa mostra è un'occasione importante per conoscere il lavoro di uno tra gli artisti italiani più significativi del nostro tempo che è stato uno dei nomi più prestigiosi della storia della scultura nella nostra città – ha dichiarato Filippo Del Corno, assessore alla Cultura - La forza espressiva che si sprigiona da queste sculture è perfettamente valorizzata dallo spazio unico di questo museo che è un altro luogo di cultura restituito alla città”.
 
Il confronto, a parte l’origine siciliana dei due artisti, passando dalla durezza del ferro alla delicatezza della ceramica, è possibile per le spiccate qualità architettoniche che Cuschera evidenzia nella consistenza plastica della sua opera, nella forza intensa delle sue essenziali strutture, negli scarni profili di forme rigorosamente geometriche, semplici nel loro dipanarsi nella grande aula, nella cripta e all’esterno del Museo, nei volumi bloccati che si ergono severi, segnati da linee circolari, verticali, oblique che si prolungano oltre le sculture stesse, quasi un ideale prolungamento nello spazio che le avvolge. Cuschera non si pone il problema di analizzare il meccanismo della forma, come Duchamp-Villon o Laurens, Lipchitz o Chillida, e neppure di operare, nell’impianto rigoroso, violenze formali. Più l’opera si fa grandiosa, presupponendo pesi insostenibili, e più restituisce un senso di levità compositiva. Le forme, infatti, sono ridotte all’indispensabile, con un opportuno incastro o slancio di elementi concavi e convessi, un alternarsi di pieni e di vuoti che restituiscono allo spazio un ruolo di assoluta preminenza. Una tale sintesi formale lascia il campo, nella ceramica policroma, a una fantasia sbrigliata, a un’esuberanza senza remore, perfino divertita nella sua apertura al dettaglio superfluo, all’elemento accessorio, a intrusioni di forcine, bastoni, penne e quant’altro possa abbattere steccati espressivi o imporre principi analitici capaci di chiuderlo in un ambito precostituito. Le reminiscenze figurative, totalmente abolite nei ferri i cui elementi geometrici tendono a dare alla scultura una monumentale imponenza, riappaiono nella ceramica (basti pensare alla rivisitazione del Cucù materano, del 2009), che abbandona il nero o la tonalità ruggine per sfruttare ogni porosità della materia e ogni colore possibile, per rendere proprio attraverso le cromie, tipicamente mediterranee, quell’animazione sotterranea che il ferro, fatto pietra miliare o menhir di una preistoria sempre presente, contiene e che la sapienza artigiana, unita a un temperamento vigore oso, da moderno sciamano, ha saputo forgiare, scavando, levigando, ritmando con incredibile leggerezza anche l’imponderabile.

 

10 - 30 luglio 2015