Zoran Music nasce a Gorizia nel 1909 e muore a Venezia nel 2005. Di famiglia slovena, cresce nel melting pot culturale di una terra in cui convivono italiani, tedeschi, croati, serbi e altre nazionalità, ma la sua pittura è particolarmente legata alla Venezia bizantina dello sguardo frontale e a quella del colore, della forza del pennello sulla tela grezza, di Tintoretto e Veronese. Appartiene a una generazione di pittori – come il francese Balthus, lo statunitense Conrad Marca-Relli, lo spagnolo Esteban Vicente e l’austriaca Maria Lassnig – che nella loro lunga esistenza sono stati testimoni dell’avvicendarsi di stili, mode e guerre.
Music – tra i pochi sopravvissuti del campo di concentramento di Dachau – subisce inoltre in prima persona la ferocia del nazismo: i disegni realizzati in segreto durante la prigionia e oggi conservati nel Kunstmuseum di Basilea testimoniano quell’atroce esperienza. La sua opera, sebbene non ascrivibile alle correnti d’avanguardia, è presente in musei quali il MoMA di New York, il Centre Georges Pompidou di Parigi, il Kunstmuseum di Basilea, il Reina Sofía di Madrid, l’IVAM di Valencia e le gallerie nazionali di Roma, Venezia e Vancouver.
Si sono interessati al suo lavoro poeti e scrittori quali René de Solier, Sylvio Acatos, Erich Steingräber, Jean Grenier e Paolo Levi. Nel 1992 quest’ultimo ha pubblicato l’interessante e poetico volume Zoran Mušič. Dialogo con l’autoritratto (Electa, Milano). Di Music si sono occupati anche importanti storici dell’arte come André Chastel, Jean Cassou, Gérard Xuriguera e Dora Vallier. Nell’aprile 1995 Gérard Regnier, direttore del Musée Picasso di Parigi, ha presentato al Grand Palais una grande retrospettiva di Zoran Music comprendente oltre 240 opere, dai disegni di Dachau a quelli del 1994. Per l’occasione l’allora presidente della Repubblica francese, François Mitterrand, ha firmato per la rivista “Museart” (n. 49, aprile 1995) uno dei testi più belli mai dedicati all’artista sloveno.
Nel 1971 Music inizia Noi non siamo gli ultimi, un ciclo di grandi dipinti a olio realizzati su supporti quasi privi di imprimitura, che rappresentano gruppi di cadaveri. Si tratta di tele in cui la scrittura pittorica mira a scoprire l’identità personale: l’io fa di se stesso il soggetto dell’opera, si trasforma in tema totalizzante della narrazione artistica. Sono l’equivalente dipinto di quella che gli inglesi chiamano “letteratura dell’io” (literature of self). L’autore si confronta esplicitamente con la propria esperienza per scoprire in che misura sia connessa a quelle altrui e, in particolare, a quelle di chi osserva le sue opere. Possiamo affermare che da allora la sua arte non si è più svincolata da quella visione dell’Olocausto e da un pensiero apertamente esistenzialista.
Music dipinge l’umanità degradata, deportata, sradicata; quella che ogni giorno rivediamo in televisione. Condensa nel suo tratto la precarietà dell’istante, medita sulla solitudine dell’essere umano privato della sua terra natia. Tra i soggetti frequentati dal pittore figurano talvolta anche le radici degli alberi, i paesaggi quasi desertici – dalmati o castigliani – o i canali veneziani solcati da anonime chiatte. Come rivela il Canale di Venezia del 1980 – altra tela praticamente priva di imprimitura – a Music interessa la fragilità dell’uomo sprofondato nel silenzio e nell’oscurità.
La figurazione di Music non cerca l’immagine dell’essere umano, ma la tenue ombra del suo esistere. Non fissa l’aspetto, come un ritratto di Velázquez, ma l’angustia dell’essere convertito in icona. Nasce dalla negazione, come le macchie di Goya. Il suo stile è basato su un fraseggio telegrafico, conciso, austero: poche linee sulla tela grezza, come solchi tracciati da una mano nella sabbia di un deserto senza fine. La pittura di Music, tragica e tenera a un tempo, è influenzata dall’arte bizantina e dal tratto energico dei Tintoretto o dei Goya che il pittore sloveno ebbe modo di ammirare al Prado tra il 1935 e il 1936.
Le serie di opere dedicate ai cavalli e agli animali da tiro dei mercanti che si spostavano tra Venezia, Trieste e le montagne della Dalmazia (Cavallini e Motivi dalmati) risalgono agli anni tra il 1947 e il 1953, anche se l’autore riprenderà alcuni di quei temi negli anni sessanta. In seguito nasceranno cicli analoghi in termini di resa del paesaggio, come quelli dedicati alle Paysannes des îles del 1953-1955 e alle Colline senesi. I Cavallini compaiono subito dopo le Vedute di Belgrado e Venezia realizzate alla fine degli anni quaranta, dopo la liberazione di Music dal campo di concentramento e il suo ritorno a Venezia e alla vita di pittore.
Nel trattamento del colore e nella tematica, incentrata sulla solitudine e l’erosione, questi dipinti anticipano per certi versi le opere del ciclo Noi non siamo gli ultimi iniziato nel 1971.Prima di questa serie – quella cui l’autore deve la sua “canonizzazione” artistica – Music si era accostato all’astrazione con Autunno in Istria (1958) e con i vari quadri intitolati Nel paesaggio il vuoto (1959-1961). Questi panorami astratti sono i diretti precursori di Noi non siamo gli ultimi, rappresentano luoghi isolati, deflagrazioni cromatiche che inghiottono gli esseri viventi caduti nell’oscurità della morte, paesaggi cosmici, buchi neri di un universo dilaniato da un’esplosione.
Dagli Asinelli del 1948 al Mercato dalmata del 1953, passando per le Colline senesi del 1952-1953, persone e animali paiono rigidi come nelle immagini ieratiche delle icone bizantine. Il pittore isola in queste opere del tutto immote un momento del cammino di gruppi di esseri che sembrano avanzare al rallentatore. Non si sofferma sulle posture degli animali o sulla sincronia dei loro movimenti, ma riproduce la lenta sedimentazione geologica di un moto di insieme. Le groppe e i quarti posteriori dei cavalli si stagliano come rocce contro un orizzonte sbarrato dalle montagne.
Music getta sul paesaggio uno sguardo frontale, in stile bizantino. Lo spazio pittorico rimanda alla tradizione italiana, all’affresco in cui il pigmento viene assorbito dall’umidità del supporto. Music non proietta la prospettiva sul piano ma nell’aria. Il Carso dei Cavallini e dei Motivi dalmati non è né uno spazio topografico (geometrico) né una scenografia. Neppure le Colline senesi sono rappresentazioni di una geografia, ma semplicemente memoria dell’esistenza come erosione, sia dal punto di vista stilistico che nell’esperienza dell’autore.
L’opera di Music è una successione di singoli dipinti che formano una galleria dell’emarginazione, quella degli uomini privati della loro identità, e una sequenza di immagini raffiguranti un territorio consumato dal vento o dal semplice scorrere del tempo. L’autore non si cura dell’esattezza fisiognomica, né della resa psicologica, ma si concentra sulla fatica dello stare in piedi, dell’inscriversi nelle pieghe del tempo; proprio come i suoi cavalli si inscrivono nell’eroso paesaggio dalmata. Registra, come un notaio, ciò che il tempo scolpisce giorno dopo giorno.
La narrazione convenzionale e la pittura figurativa tendono tradizionalmente a occultare con troppa leggerezza la difficoltà epistemologica insita nell’atto di rappresentare. La rappresentazione è un dialogo basato su una finzione: la pretesa del realismo figurativo di restituire il “tempo reale”. L’occultamento del dettaglio per cercare l’essenza è ciò che ci consola dinanzi a opere particolarmente difficili, come quelle di Alberto Giacometti o di Francis Bacon. Dal punto di vista formale quella di Music è una riflessione visiva sulla figura sfigurata, non soltanto convertita in ombra espressiva – listata a lutto come i necrologi o posata su un piedistallo – ma soprattutto erosa, in fuga da se stessa.
È come se il pittore trascrivesse con il pennello le parole, esistenzialiste più che platoniche, scritte dal solitario poeta svizzero Robert Walser a proposito dell’esistenza umana: “Chi ha un’ombra possiede anche un corpo” (“Wer einen Schatten hat, besitz auch einen Körper”). Music, al contrario, scopre se stesso in ciò che ha di fronte, guardando il disgregarsi del paesaggio come fosse quello della propria vita.
Come i Microgrammi dello scrittore svizzero, i quadri di Music – dagli Asinelli del 1948 ai Canali del 1980 – costituiscono un paesaggio dell’io privo di ombre, visto frontalmente: uno specchio silenzioso che riflette la solitudine della sua esistenza.