Si può essere invidiosi degli artisti? Magari non di tutti, ovviamente, ma di qualcuno sì: io lo sono di Giuseppe Maraniello, e lo sono per motivi squisitamente estetici, non so se questo riscatta un sentimento poco onorevole come l'invidia, forse sì, se si riesce a motivarlo, come cercherò di fare. Innanzitutto invidio di Maraniello la musa benevola che gli ha fatto trovare, da subito, la sua strada, il suo ‘stile', e la possibilità di modulare, attraverso gli anni e i cambiamenti inevitabili che avvengono attorno a noi, la propria inventiva attorno a delle idee-forza che non sono ‘soltanto' delle soluzioni creative ma anche delle ben precise prese di posizioni di tipo estetico. L'estetica come ‘scienza del bello', è oggi una disciplina filosofica a cui si guarda con sospetto, per l'immediata associazione che essa provoca a prescrizioni, obblighi, adesioni e quindi eresie, dissensi ecc , ma su una disciplina che ha visto faticose elaborazioni delle migliori menti filosofiche non va gettato nessun anatema, anzi. Cito ad esempio un brano di Kant al quale affido il compito di indicare, si parva licet, alcune delle caratteristiche che trovo nelle opere di Maraniello e ne costituiscono uno degli aspetti più significativi: “La matematica non ha sicuramente la minima parte nell'attrattiva e nel moto dell'animo che la musica provoca, ma è solo la condizione indispensabile di quella proporzione delle impressioni, sia nel loro legame sia nel loro mutamento, mediante la quale diviene possibile comprenderle e impedire che esse si neutralizzino a vicenda, e piuttosto far sì che si armonizzino in un continuo mutare e rinfrancarsi dell'animo mediante emozioni con esse consonanti e quindi in un gradevole godimento interiore” (Immanuel Kant, Critica della facoltà di giudizio, Biblioteca Einaudi, Torino 1999, pag. 165). Sono facilmente individuabili, mi pare, in queste parole, quegli elementi di permanenza e trasformazione, sempre all'interno di una salda volontà compositiva, che integrano, nelle opere di Maraniello, l'esprit de géometrie (e mi scuso se faccio di nuovo ricorso alle parole di un filosofo, stavolta Pascal) con la continua, sottile variazione armonica della giustapposizione degli elementi costituenti l'opera compiuta.
Nel “Museo del ‘900” di Castel Sant'Elmo, a Napoli, è esposta una di queste opere, Equilibrio, del 1978; è un'opera quasi liminare, pure vi compaiono, e già disposti con proporzione kantiana, elementi che faranno sempre parte della ‘dispensa' di sapori cui Maraniello ha attinto nei decenni successivi: la superficie piana ma dalla testura tormentata, la ‘perforazione', che implica la chiamata in causa della tridimensionalità, e infine un elemento plastico, cui è affidato, dietro l'emulazione di un corpo umano in movimento, il compito di intercettare le ‘tensioni' spaziali. L'armoniosa ricomposizione di queste componenti, cui potremmo aggiungere il cromatismo castigato e la decisa delimitazione del campo d'azione creatrice, che si presenta qui con la massima ‘naturalezza', e che – impareremo con gli anni e con il succedersi delle opere – non è assolutamente una dimostrazione di disinvoltura ma l'approdo di un percorso di elaborazione poetica. Una distillazione figurativa che punta a un obbiettivo ben preciso, e dichiarato già nel titolo, la conciliazione attraverso la giustapposizione, lo stato dove l'equilibrio delle forze in campo trova un fragile, provvisorio, ansioso equilibrio . Appunto.
Vorrei chiarire che non considero le opere di Maraniello, a qualsiasi livello dimensionale, degli approdi, al contrario, proprio nel momento in cui il quadro, la scultura, l'installazione, il mosaico lasciano l'officina, è come se prendessero il largo: si fanno strada nel mondo portando non soltanto il segno dell'artefice che le ha create, ma anche lo stigma dello scacco dell'arte. Uno ‘scacco' obbligato, oggi, per opere che fagocitano ogni materia, che calamitano il legno bruciato e il marmo statuario, i pigmenti e le tessere musive, il ferro arrugginito e l'acciaio corten, l'oro e l'argento, il bronzo e la tela … un catalogo di materiali che spiega bene l'enorme ambizione dell'artista: quella di porre al riparo le cose dalla dispersione e dalla consunzione implicita nel superfluo, parola estranea al mondo dell'arte, dove tutto è necessario. Creare è come ‘ricreare', si rimette al mondo un pezzo di legno eroso dal tempo facendolo entrare in contatto con un filo d'acciaio a cui è sospeso un oggetto misterioso. Ma si ricrea, nelle cose, attraverso le cose, anche uno stato d'animo, una speranza, un sogno di un ‘altrove' di bellezza. Quello che colpisce nella produzione dell'artista è la capacità di subordinare, all'equilibrio formale dell'opera, le innumerevoli tensioni che riesce a creare al suo interno, e non parlo soltanto del “bel composto” - per usare un'espressione cara ai trattatisti barocchi, con la quale si indicava all'ammirazione degli spettatori l'ingegnosità con cui un artista riusciva a subordinare pittura, scultura e decorazione alla riuscita dell'immagine finale – attraverso il quale riesce a modulare plasticamente elementi diversi, ma intendo principalmente la sua capacità di ‘chiudere' la forma. Infatti, nonostante il sovrapporsi dei piani, l'intrecciarsi delle materie, l'intricarsi dei motivi plastici, nessuna opera di Maraniello, neppure quelle che si ‘lanciano' spericolatamente nello spazio, perde mai di vista la necessità di porvi il sigillo del ‘finito'.
Un ‘finito' che è fatto di perfezione formale, di impeccabile messa a punto del dettaglio, di equilibrio.
Alla luce di questa compiutezza dell'immagine, nella quale si risolvono tensioni creative e tensioni figurali, assumono un senso diverso anche le tracce, i ricordi, gli apporti di artisti che hanno lasciato nella creatività di Maraniello un segno riconoscibile, attraverso il quale è più facile entrare in questo mondo così vario eppure così coerente, di fede immacolata nel destino di redenzione dell'arte eppure al tempo stesso così roso dal dubbio, dall'incertezza, dalla paura del vuoto. L'abilità di tracciare il limite entro cui far giocare gli elementi della composizione, in modo da non far collassare l'opera per le tensioni fra gli elementi che la compongono, non può però lasciare in secondo piano l'abilità con cui Maraniello inserisce nelle sue opere, anche in quelle plasticamente più compiute, un sottile senso di instabilità, quella leggera incertezza di chi non si sente perfettamente sicuro del terreno su cui cammina. E' questo il ‘sintomo' della modernità di un artista, donarci l'illusorio convincimento di una pacificazione, del venire a capo del mondo nell'opera d'arte, salvo farci poi ricredere con un contraccolpo inaspettato, perché credere nella bellezza è come camminare su un filo sospeso nel vuoto, non bisogna mai abbandonarvisi completamente se non si vuole cadere, perché l'arte è un gioco, ma rischioso.
Un ‘finito' che è fatto di perfezione formale, di impeccabile messa a punto del dettaglio, di equilibrio.
Alla luce di questa compiutezza dell'immagine, nella quale si risolvono tensioni creative e tensioni figurali, assumono un senso diverso anche le tracce, i ricordi, gli apporti di artisti che hanno lasciato nella creatività di Maraniello un segno riconoscibile, attraverso il quale è più facile entrare in questo mondo così vario eppure così coerente, di fede immacolata nel destino di redenzione dell'arte eppure al tempo stesso così roso dal dubbio, dall'incertezza, dalla paura del vuoto. L'abilità di tracciare il limite entro cui far giocare gli elementi della composizione, in modo da non far collassare l'opera per le tensioni fra gli elementi che la compongono, non può però lasciare in secondo piano l'abilità con cui Maraniello inserisce nelle sue opere, anche in quelle plasticamente più compiute, un sottile senso di instabilità, quella leggera incertezza di chi non si sente perfettamente sicuro del terreno su cui cammina. E' questo il ‘sintomo' della modernità di un artista, donarci l'illusorio convincimento di una pacificazione, del venire a capo del mondo nell'opera d'arte, salvo farci poi ricredere con un contraccolpo inaspettato, perché credere nella bellezza è come camminare su un filo sospeso nel vuoto, non bisogna mai abbandonarvisi completamente se non si vuole cadere, perché l'arte è un gioco, ma rischioso.
Testo di Angela Tecce