On the Matter è il titolo di una mostra tematica che si sviluppa negli spazi di lorenzelli arte in due momenti espositivi, destinati a far luce sulle declinazioni e sulle motivazioni che spingono artisti storici e contemporanei ad utilizzare nella loro ricerca uno o più materiali in modo innovativo, coerente, reiterato e in alcuni casi anche ossessivo.
La mostra si divide in due tempi: il primo, che apre giovedì 14 novembre e si estende sino a gennaio, alza lo scenario sulle opere dal Novecento sino all’epoca postmoderna, mostrando come gli artisti selezionati abbiano inventato, trovato, assemblato, manipolato, addensato ed esasperato i materiali, per elaborare un linguaggio che ora intende rianimare, dall’interno, strumenti e materie tradizionali dell’arte, ora sa portare nuovi elementi materici nel processo di ideazione e composizione dell’opera.
Apre il percorso sulle opere-manifesto della prima modalità di ricerca la Formula Pittorica (n.8) del 1920 di Pavel Mansurov: necessaria presenza per ricordare la straordinaria lezione delle avanguardie storiche, lezione consegnata come un testimonio, un monito e un incitamento al secondo dopoguerra, quando gli artisti devono ricostruire sulle macerie di un mondo sconvolto: bisogna chiedersi “che fare”, e “come fare” per esprimere quanto è accaduto, per plasmare quanto accadrà. Bisogna toccare, scegliere, provare a costruire con quel che resta, con quel che si può immaginare. Il fermento del nuovo, in un’epoca dilaniata tra la caduta e la speranza, conduce gli artisti a guardare alla materia come a una sorgente di ispirazione.
On Matter: così ci si rialza.
“Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga”.
Albert Camus lesse il suo discorso per il Premio Nobel per la letteratura nel 1957: le sue parole riecheggiano tra le opere in galleria, a partire dall’esempio di Conrad Marca-Relli con Unications R-3, 1957, dove la pittura ad olio interviene su un complesso collage su tela, dando vita a una pièce teatrale in cui gli elementi compositivi combattono epicamente sulla superficie, rinnovando dall’interno il metodo e le forme della pittura; vi sono poi le indagini dell’artista francese Jean Dewasne che orchestrano la smagliante sinfonia astratta dove gli smalti sulla tela fanno rilucere il suo L’or antipode del 1959; o ancora, le quattro imponenti sculture di Miguel Berrocal – Opus 4 Roma, Opus 6 Roma, Opus 6 bis Roma, Opus 13 Roma, realizzate tra il 1956 e il 1958 – dove il ferro forgiato eleva corpi di muscolare, guerriera potenza che aprono la scultura a nuove dinamiche compositive e iconiche. Due le opere di Vittorio Tavernari, due corpi – Crocefissione del Nord, 1961 e Cristo Crocefisso (suite nordica), 1961-1962 – che sono busti cristologici di legno lavorato con sacrale senso del tragico.
Le domande sugli strumenti e sui metodi del dipingere appartengono all’imponente Loud di Giorgio Aricò, datato 1965: un’opera che grida ad alta voce la sua possente composizione virata nel verde; al Weisser Jatus datato 1974 del tedesco Günter Fruhtrunk, composizione formata da linee diagonali che animano in campiture blu, nere, verdi la superficie, secata al centro da un doppio iato bianco; alla tela sulla quale reitera e varia il ductus pittorico Giorgio Griffa, nell’opera non titolata del 1973: come un rotolo di una scrittura del futuro, che si estende per quasi tre metri, in attesa di essere decrittato. Gli fa eco l’opera romboidale dell’artista peruviano Jorge Eielson, Orione, datata 1991, una costellazione di pittura acrilica virata nel celeste, nel bianco e nel giallo ad animare il cielo di juta. Al centro della seconda sala della Galleria, la Grande Odalisca di Alberto Viani, in bronzo lucidato datata 1974-1975, dialoga con le forme di Aricò.
Altri artisti presenti in mostra portano nuovi materiali nella ricerca: il loro approccio è sperimentale e le nuove materie entrano con prepotenza nel processo ideativo e compositivo, indicando nuovi percorsi visuali. Tra fine anni Cinquanta e anni Sessanta la ricerca artistica subisce la fascinazione nei confronti dei metalli da lavorazione industriale, come dimostrano la Migration d’elements (K 24) del 1957 di Zoltan Kemeny, un addensamento di tubi di rame cromato, sfere di legno dipinte ed elementi prefabbricati, naufraghi in un mare corrusco, e la Lacerazione V di Pierluca del 1961, uno squarcio di acciaio e alluminio; sono ancora i metalli protagonisti nelle superfici metalliche animate da finissime vibrazioni che esaltano le incidenze luminose in Getulio Alviani, nella Superficie a testura vibratile
del 1964, e nella Physichromie n. 407 di Carlos Cruz-Diez datata 1968 che stimola la percezione dello spettatore attraverso la compisizione di elementi di plastica colorata su alluminio.
Paolo Icaro dipinge di nero l’alluminio in Luogo del punto diagonale, 1973, interrogando le modalità compositive dell’opera ed Herbert Ferber plasma una scultura che diventa piccolo monumento del metallo, in Issoire B del 1978.
Come il metallo, così i materiali plastici, che fanno il loro seducente ingresso nelle arti visive nello stesso periodo, cantati nell’ipnotico Le Chant du styrène, cortometraggio pubblicitario sull’utilità della plastica firmato dal regista Alain Resnais nel 1958 il cui testo poetico è scritto dallo scrittore e drammaturgo francese Raymond Queneau: lo dimostrano la Optical dynamic structure di Toni Costa datata 1960, il grande Plexiglas di Marco Gastini del 1969, una pittura ad alta percentuale di metallo su plexiglas. La plastica in Aldo Mondino si condensa nella forma di un palloncino blu che fa volare sulla parete una composizione di acrilici e corda su tela del 1966, mentre Peter Klasen in Store n. 2 del 1969 prende una veneziana e la dispone su una superficie gialla: una prova di ardore è richiesta per vedere l’immagine erotica proibita che si cela lì dietro.
In altri artisti, come Arturo Bonfanti con il Pavatex, e in Jean Gorin con la masonite, sono i lavorati del legno a rappresentare interessanti superfici di ricerca pittorica, destinati a sfociare rispettivamente in AC Murale 153, 1975, e in Composition n. 49, 1959.
Poi c’è Luciano Bartolini, che deve sperimentare ogni materiale: i suoi Kleenex su carta da pacchi degli anni Settanta, le sue pitture su carta vetrata della fine degli anni Ottanta. Giuseppe Maraniello chiude il percorso assieme a Piero Fogliati, perché realizzano le rispettive opere nel 1990 e nel 2000: il Fleximofono del secondo è una prova della sua straordinaria inventiva, mentre con Gianfranco ed io Maraniello utilizza più media, rimescolando le carte della materia e aprendo il varco al nuovo Millennio che da febbraio sarà ospitato in galleria, con la seconda tappa della mostra, dedicata ad artisti di oggi.